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Vorrei fin da subito parlare di Cuore di tenebra come di quel romanzo che mi ha scombussolato l’esistenza, perché – incredibile a dirsi! – l’ha fatto davvero. Da tempo divento scettica di fronte alla retorica reiterata che esordisce con «leggere salva la vita» e finisce per manifestare la sua vera natura: mero moralismo, pura formalità, carenza di sostanza e di autenticità. Leggere salva chi legge? Una volta lo credevo, ora – ripeto – sono molto scettica. Non credo che leggere sia un’attività che ti può strappare da qualcosa di mostruoso, come l’esistenza e le sue innumerevoli vicissitudini. Piuttosto, direi che può rendere interessante un momento piatto, o può aiutare a distrarsi da un certo sconforto e ad aumentare i propri orizzonti mentali, eccetera. Poi però! Poi però ho letto per la seconda volta Cuore di tenebra e… e continuo imperterrita a non credere a quell’ipocrita retorica. Ma! Ma conosco il nobile valore che un lettore riesce ad attribuire a un libro, quando gli scombussola l’esistenza. E con scombussolare l’esistenza non voglio soltanto dire che è piaciuto tanto, che ha reso interessante un certo momento o che ha tenuto compagnia in una fase di pericolosa solitudine. No, no! Con scombussolare l’esistenza mi riferisco soprattutto a quell’effetto di plagio e a quella specie di romantica palingenesi che un autore, con la sua storia, riesce a operare sul lettore. Quando un libro ti scombussola la vita, cominci a ragionare nel suo linguaggio, prendi a dialogare per mezzo dei personaggi in esso racchiusi e a respirare all’interno dei margini delle pagine scritte per te, e per altri come te. In quel momento, nella foschia di una dannata e assoluta consapevolezza, senti che la tua esistenza è stata scombussolata. Cos’hai vissuto a fare, prima di leggere quel libro? Ovviamente è una domanda del tutto ironica ma voglio essere onesta – e pure un po’ superba; quindi non mento se ora scrivo che qualche giorno fa mi sono posta quella domanda con una vena di serietà nella voce, dopo aver voltato l’ultima pagina di Cuore di tenebra. E meno male che, animata da un guizzo di ingiustificata curiosità, ho pensato di rileggerlo altrimenti ora starei ancora cercando di spalmare il senso della mia vita sul dorso roano dell’esistenza umana. Inutilmente. Cito testualmente un messaggio che mi è arrivato da una persona con cui condivido la passione per la lettura: «perché Cuore di tenebra ti è piaciuto così tanto? Il suo linguaggio è ostico e la storia in sé non è poi così avvincente.» Sul secondo punto non sono d’accordo, perché bisogna riconoscere alla narrazione l’aspetto pratico e l’azione su cui si basa: cos’è viaggiare se non una cosa avvincente? Per giunta, cos’è viaggiare nei meandri oscuri dell’essere umano (che è ciò di cui parla Cuore di tenebra) se non qualcosa di estremamente suggestivo e intrigante? Sul primo punto potrei essere d’accordo, ma fino a mezzogiorno. Il linguaggio di Cuore di tenebra non è realmente ostico, semplicemente si deve adattare al contesto: navigazione – commercio – Africa: cosa inducono a primo impatto? A me stimolano l’immaginazione e la prima fotografia che si dipana dalla frotta delle fantasie è un’azione, un’immagine in movimento per la precisione: un mucchio di persone ammassate su un battello, tutte – tranne una – animate dalla brama di guadagnare denaro, tanto denaro, che navigano lungo un fiume attorniato da persone dalla pelle scura che vivono in catene e i cui canti sono l’eco di una tristezza primitiva. Di conseguenza lo stile dell’autore, per poter essere efficace, deve sapersi adeguare a tutta quella azione che anima la storia, e che ci viene scagliata addosso sotto varie forme – più o meno esplicite. Prima di entrare nei dettagli sarebbe doveroso elargire le informazioni principali: Cuore di tenebra è stato scritto dal celebre scrittore Joseph Conrad ed è stato pubblicato in tre puntate nel 1899, poi in volume nel 1902. La vicenda narrata si rifà ai viaggi compiuti dall’autore nel 1890 in Africa. La storia apre con il tramonto sul Tamigi, mentre un gruppo di marinai è ancorato in un porto in attesa della marea favorevole per poter navigare. Subito si fa largo un’immagine che suggerisce al lettore qualcosa di prossimo: Nella sua curva e impercettibile discesa, il sole tramontò; e da bianco scintillante si mutò in un rosso opaco senza raggi e senza calore, come in procinto di spegnersi all’improvviso, colpito a morte dal contatto con quella cappa incombente sulla folla di esseri umani. Uno dei marinai, Marlow, comincia a raccontare di un viaggio fatto anni prima, grazie al quale è entrato in contatto con il continente più arido, misterioso e primitivo, oltre che il più soffrente di tutti. Racconta di un’Africa stuprata dall’inganno dei bianchi, dalla loro impellente e brutale voglia di conquistare, sfruttare e possedere. La denuncia al colonialismo da parte di Conrad è diretta e famelica, infatti: La conquista della terra non è poi granché dato che si riduce a depredare coloro che hanno un diverso colore della pelle o il naso un po’ più schiacciato dal nostro. È soltanto l’idea a riscattarla, l’idea che c’è dietro: non la pretesa di un sentimento, ma un’idea; e una fiducia incondizionata in un’idea – qualcosa da poter innalzare, verso cui inchinarsi e a cui offrire sacrifici. Marlow racconta ai suoi colleghi il viaggio dapprincipio, spiegando loro perfino lo stato d’animo che ha avuto dopo che la Compagnia lo ha assunto come marinaio, una sensazione del tutto inequivocabile: Non so perché ebbi la spiacevole impressione di essere un impostore […] per pochi istanti, ebbi la sensazione che stavo per partire non per il centro di un continente ma per il centro della terra. Quello che ci viene donato mentre leggiamo le parole di Conrad è quindi un messaggio preciso, così come è preciso il significato che assume il tramonto all’inizio del romanzo: vuole indicare la decadenza dell’essere umano e la flaccidezza dei valori (palesemente immorali) in cui l’uomo bianco nutre fiducia. E, accanto a questo specchietto nel quale siamo esortati a scrutare con tanta pena, Marlow si accosta per raccontare che durante quel viaggio pericoloso e scandaloso sentiva per un po’ di appartenere ancora a un mondo autentico, ma la sensazione non durava a lungo, perché in lui c’era un climax crescente di oppresso stupore dal quale non c’era modo di liberarsi. L’Africa intera era impastata di un orrore straziante – e proprio questo è il messaggio preciso che si libra nell’aria, mentre Marlow parla ai suoi compagni di viaggio. Il sole africano è alto, bianco e poi rosso, troppo bruciante perché lo si possa tollerare senza soffrire. E allora la maggior parte dei marinai e dei pellegrini impazzisce, qualcuno si ammazza pure. Marlow sembra impassibile di fronte alla pozza di sangue che si infila tra i piedi, quel sangue scuro che sgorga dal compagno ucciso da una lancia in movimento. Impassibile in mezzo a quegli incubi suggestivi che pullulano dalla giungla selvaggia e umida. Ma la verità è che non si impazzisce realmente a causa del sole, e questo Marlow lo sa; lo sa giacché ha incontrato di persona il demone flaccido, ipocrita e miope di una follia rapace e spietata. Marlow, però, non ha deciso di abbandonare il vecchio continente per farsi i soldi in Africa; il suo viaggio è una ricerca, una caccia all’uomo se così vogliamo dire: è stato incaricato di scendere lungo il grande fiume per raggiungere una persona molto importante, di cui ci è permesso conoscere soltanto il cognome: Kurtz. Kurtz viene citato da tutti i compagni di Marlow, non senza un tocco di invidia nella voce, e dai mercanti incontrati nei vari porti, oltre che dagli ambigui colleghi della compagnia… in realtà tutto quanto, in Africa, sembra svelare la presenza di questo misterioso Kurtz. Ma cosa ha reso Kurtz una persona così notevole? L’invidia irriverente che suscita negli altri è dovuta al fatto che, come nessun altro, riesce a procurare ingenti quantità di avorio – materiale molto ricercato in Europa e per il quale tutti mentono e si detestano laggiù, in quell’inferno di fango e desolazione: La stazione era pervasa da un’atmosfera di congiura da cui, ovviamente, non veniva fuori nulla. Era irreale, come tutto il resto – come le pretese filantropiche dell’intera operazione, come i loro discorsi, come il oro modo di gestire il potere e di far finta di lavorare […] Complottavano, si calunniavano, si odiavano. C’è una parola che ritorna con una certa frequenza durante la narrazione – in realtà ce ne sarebbe più di una, ma quella che sembra spiccare tra tutte è «irreale». Irreale è l’ambiente circostante, la cui scena è divisa tra i corpi scuri e affamati degli indigeni, confinati agli angoli estremi della vita; irreale è anche il sentore di sciocca avidità che si propaga dalle stazioni, dai porti, come il puzzo di putrefazione. Irreale è la parola avorio che bacia le labbra delle persone e risuona con una certa gelosia nell’aria. Ma può esistere la giustizia in un luogo tanto ingiusto e crudele? Di paragrafo in paragrafo le parole di Marlow si fanno sempre più preziose: Esiste un po’ di giustizia al mondo che permette a un uomo di rubare un cavallo mentre a un altro non è nemmeno concesso di guardare la cavezza […] Ma c’è un modo di guardare la cavezza che indurrebbe anche il santo più caritatevole a sferrare un calcio. Un contrasto spettacolare domina le giornate che trascorrono e che separano Marlow da Kurtz: la fatica immane del viaggio, il trambusto degli indigeni, i canti tribali di notte, le lance scagliate dalla riva del fiume in segno di difesa. E poi, l’improvvisa pace sguinzagliata dalla luna che con la sua luce incandescente imperla di strisce argentee la superficie del fiume, la cui acqua scorre senza far rumore e scintilla, scintilla in mezzo all’oscuro spazio vuoto. La pace, la maestosità della natura ora quieta, addormentata e silenziosa… cos’è questo, in realtà? Cosa nasconde questa pace? È un invito o una minaccia? Questa pace non è che un’apparente immobilità, è solo una linea piatta che preannuncia una salita aggressiva e improvvisa, è la stasi di una forza terribile che ha in sé un’intenzione oscura. La vita in Africa è dunque comandata da un contrasto irrisolvibile. Ma se vogliamo dirla tutta, l’Africa è un mondo a parte: siamo abituati a vedere il mostro in catene, dice Marlow, mentre in Africa è libero e affamato, oltre che spietato. Pertanto è inutile cercare di ristabilire un contatto con l’essere addomesticato che siamo stati, perché un paio di occhi è sempre lì ad osservare da dietro i giunchi, dai contorni della giungla, da ogni dove – e osserva con aria seria, importante, come se il giudizio finale fosse già lì, pronto a essere espresso. Kurtz… Per buona parte del libro Kurtz non è altro che una parola che torna a galla ogni volta che Marlow prova a considerare le sue gesta e le opinioni che la gente ha di lui. Kurtz ha il potere taumaturgico di ammaliare le anime disperate che lo circondano: le incanta, le terrorizza, comunica loro quel senso che Marlow ha sperimentato strada facendo ma che comprenderà solo alla fine. Quando finalmente Marlow incontra Kurtz, nota subito il suo pessimo stato di salute. È in fin di vita e forse in preda alla follia. Marlow rimane affascinato da quell’uomo gettato nell’ombra, tuttavia non sa spiegarsi il motivo. Non può perdere tempo, però; deve portarlo via da lì, anche a costo di mettersi contro tutti i feroci indigeni che proteggono Kurtz, gli stessi che vedono in lui un Dio. Durante il viaggio di ritorno Marlow osserva il volto di Kurtz, quella testa d’avorio dall’espressione cupa, disperata e priva di speranza, e cerca la sua anima – quello spirito eloquente che ora tace e brancola verso una tenebra impenetrabile. Ma ecco che Kurtz trova la forza di far passare l’ultimo respiro attraverso le labbra per raccontare il vero, la somma finale e il senso che Marlow aveva già sospettato: L’orrore! L’orrore! Kurtz è stato un uomo notevole, e questo non lo dicono solo gli uomini della Compagnia o Marlow. Lo dico pure io, che mi sembra di averlo conosciuto anche se per un attimo e attraverso parole stampate. Kurtz è stato un uomo importante perché aveva qualcosa da dire e l’ha detto, con raziocinio e senza giri di parole. Era impazzito? Può darsi, ma il fatto non è questo. Il fatto è che aveva delle convinzioni, una morale salda, una mente abbastanza acuta da poter attraversare quella degli altri; e aveva il volto raccapricciante della verità riconosciuta a distanza. La sua perfetta eloquenza celava, in realtà, una promiscuità di elementi che hanno dato vita a quel moto d’odio e orrore che lo animava – una promiscuità che, ineluttabilmente, lo ha anche spinto oltre i limiti della vita addomesticata. E compiendo l’ultimo passo, ovvero esprimendo quel giudizio fermo e convinto («L’orrore! L’orrore!»), Kurtz si è affermato e la sua onestà, ora immersa in uno spazio invisibile, riverbera già nell’ammirazione contagiosa che Marlow e tutti quelli che lo ascoltano nutrono nei suoi riguardi. Kurtz ha accettato di tornare alla civiltà perché sapeva che a destinazione sarebbe arrivato soltanto il corpo, e non l’anima. La sua mente allora ha colto l’attimo e ha gridato; ha gridato talmente forte da produrre un eco di magnifica eloquenza che, urtandomi contro, mi ha scombussolato l’esistenza. Veramente.





