I cani e i lupi
Le basta vederlo una sola volta, quel bambino ricco, ben vestito, dai riccioli bruni, dai grandi occhi splendenti, che abita nella meravigliosa villa sulla collina e di cui dicono sia un suo lontano cugino, per essere certa che lo amerà per sempre, di un amore assoluto e immedicabile. A Kiev, la famiglia di Ada abita nella città bassa, quella degli ebrei poveri, e suo padre fa parte della congrega dei maklers, gli intermediari, quegli umili e tenaci individui che si guadagnano da vivere comprando e vendendo di tutto, la seta come il carbone, il tè come le barbabietole. Fra le due città sembra non esserci altro rapporto che non sia il disprezzo degli uni e l’invidia degli altri. Eppure, allorché il ragazzino Harry si troverà di fronte la bambina Ada, ne sarà al tempo stesso inorridito e attratto: come «un cagnolino, ben nutrito e curato, che sente nella foresta l’ululato famelico dei lupi, i suoi fratelli selvaggi». Quando molti anni dopo, a Parigi, il destino li metterà di nuovo l’uno di fronte all’altro, Harry non potrà più indietreggiare, e dovrà fare i conti con quella misteriosa attrazione che Ada esercita su di lui. Alla prima edizione di "I cani e i lupi" l’autrice premetteva un’avvertenza in cui, presentando il romanzo come una vicenda che non poteva essere altro che «una storia di ebrei», ribadiva la propria intenzione di descrivere il popolo a cui apparteneva così com’era, «con i suoi pregi e i suoi difetti»: giacché, affermava orgogliosamente, «in letteratura non ci sono argomenti tabù». Oggi, i numerosissimi lettori che la amano sanno che pochi sono stati in grado di raccontare il mondo degli «ebrei venuti dall’Est, dall’Ucraina o dalla Polonia» con altrettanta verità e altrettanto amore.