
Io che non ho mai conosciuto gli uomini
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La protagonista, chiamata “La piccola” e priva di un nome personale, è costretta a crescere fin dalla più tenera età in un bunker sotterraneo insieme ad altre 39 donne, all’interno di una gabbia tenuta sotto stretta sorveglianza da un gruppo di guardie tutte di sesso maschile. Queste sono pronte a intervenire utilizzando la violenza nel caso in cui le prigioniere vengano meno al rispetto di regole quali, ad esempio, l’evitare il contatto fisico fra loro o il divieto di togliersi la vita.
Si tratta di un’esistenza vissuta in cattività: persone private di qualsiasi tipo di svago se non i loro stessi pensieri e la compagnia reciproca, senza più nessuna cognizione del tempo, scandito unicamente dai segni che esso lascia sui corpi delle donne, e alcun tipo di intimità, con un’infinità di domande sulla loro situazione ma nessuna risposta, solo il fioco ricordo di quella che era la vita prima della tragedia, tragedia di cui tra l’altro non trattengono nessuna memoria. È, in poche parole, l’esistenza miserabile di animali in gabbia, gabbia tra l’altro troppo piccola per ospitarli tutti.
“La piccola” è cresciuta nel bunker, non ha ricordi personali della vita prima della tragedia ed è a tutti gli effetti una creatura di quel mondo, non conosce normalità al di fuori della propria attuale condizione (e ciò sarà causa del suo isolamento dalle altre donne, che non la rendono partecipe dei loro discorsi). Sarà proprio lei, però, a risvegliare dal torpore le sue compagne di cella.
Un giorno, - nell’esatto momento in cui le guardie stanno aprendo la gabbia per dare loro gli alimenti con cui cucinare - un allarme rompe la monotonia della loro esistenza: le guardie abbandonano la struttura, lasciando però la chiave della gabbia all’interno della serratura.
Le donne sono finalmente libere, ma fuori dalla loro prigione non troveranno mai ciò che tanto ardentemente desiderano.
Un libro sulle domande senza risposta, sulla ricerca di significato in un mondo che sembra non avere senso, sull’importanza dei legami affettivi (possono questi, da soli, rendere una vita degna di essere vissuta?). E la forza di andare avanti, nonostante tutto.
Forse “La piccola”, nella sua diversità, non avendo conosciuto nient’altro che quell’arido mondo, riesce a trovare un senso alla propria vita nell’esplorazione stessa, anche se questa, agli occhi delle altre donne (e ai nostri) potrebbe sembrare inconcludente, risultare nient’altro che una seconda forma di prigionia.
Così diversa perché priva di ricordi della vita prima della tragedia, incontaminata dalle influenze sociali del vecchio mondo, estranea alle regole da cui era dominato. Tanto che concetti scontati, come quello di intimità, risulteranno per lei una sconcertante scoperta.
E l’impossibilità di pretendere dalla vita un qualcosa che non ha mai avuto modo di conoscere, la finale accettazione della sua condizione, l’unica che abbia mai sperimentato, senza aver mai perso la speranza di poter incontrare, un giorno, qualcun altro, se non di persona, attraverso la parola scritta.
La mia curiosità non è stata mai soddisfatta, capisco sia una decisione presa consapevolmente, ma un po’ mi è dispiaciuto.